Non ho idea su chi, ad un certo punto, abbia pensato di dividere la popolazione in generazioni. Sono quasi certo che sia stata un'idea partorita da qualche genio del marketing quando si rese conto che, in un mondo che corre in fretta, inevitabilmente qualcuno era destinato a rimanere indietro. La necessità era quella di segmentare e fornire messaggi mirati, per arrivare a tutti. Potrei chiederlo alle figlie se sanno chi ha inventato il concetto di generazioni, ma sono certo mi risponderebbero che è una domanda da boomer (anche se, in realtà, io dovrei essere un appartenente alla generation X). O, peggio, potrebbero dirmi di chiedere ad Alexa. Che io la odio Alexa. E loro lo sanno.

Pure l'ISTAT ammette che la classificazione delle generazioni è da intendersi come "non convenzionale" e nasce dall'esigenza di dividere le persone sulla base del loro ingresso nella vita adulta, considerando che sempre più spesso si verificano eventi che rappresentano una rottura nel continuum delle storia. Accadimenti importanti che modificano profondamente la società e quindi, di conseguenza, i comportamenti delle persone.

Fonte: ISTAT - Classificazione delle generazioni - 20 maggio 2016

Per chi ancora non ne fosse a conoscenza, i nati tra il 1946 ed il 1965 sono indicati come boomers. Sono quelli del boom economico del dopoguerra, gente che oggi è pensionata, prossima alla pensione e molto probabilmente vive già l'esperienza di essere nonno. Sono comunque quelli che in gran parte oggi ricoprono le posizioni più importanti nelle aziende e nella società. Sono quelli che hanno un mare di esperienza, che regalano spesso delle perle di saggezza, ma sono pure quelli che non si schiodano dalla poltrona e difficilmente accettano il ricambio generazionale. In certi casi penso che dovrebbero farsi da parte ed occuparsi di aiutare i giovani a crescere e migliorare. Non sempre accade. Sono comunque quelli delle grandi battaglie sociali e delle trasformazioni culturali degli anni Settanta. Sono quelli del rock e dei grandi cantautori. Sono quelli delle grandi visioni politiche.

Poi abbiamo la generazione X, quelli nati tra il 1966 ed il 1980. Sono quelli che da adulti hanno visto il cambio di millennio. Probabilmente la generazione più fortunata, cresciuta da chi aveva ricostruito la società dalle guerre precedenti, da chi aveva ancora degli ideali e delle forti idee sociali. Sono quelli che hanno visto in prima persona il cambiamento epocale della società, quelli che lo hanno vissuto da dentro, quelli che si sono dovuti adattare alle nuove tecnologie. Sono quelli che hanno vissuto un'infanzia ed un'adolescenza felice, fiduciosi di vivere in un mondo che correva veloce sempre migliore. In un mondo che manteneva le promesse. Chi ha studiato, iscrivendosi all'università, perché in questo modo la ricompensa era il posto fisso ed un impiego riconosciuto e ben retribuito. C'era una promessa. Non sempre mantenuta. Sono infatti entrati nel mondo del lavoro con più lauree e master dei propri genitori ma sono anche i primi ad aver subito le conseguenze della recessione, con minori opportunità di lavoro in termini sia di quantità sia di qualità.

Dagli anni 80 nascono quelli della generazione Y, che include gli anni dal 1981 al 1995. I cosiddetti Millennial. Sono quelli della digitalizzazione e dell'era dell'informazione. Sono quelli che hanno studiato e si sono formati in un mondo ormai completamente  informatizzato, orientato al digitale. Sono i primi ad essere cresciuti con uno smartphone tra le dita. E con internet sempre a disposizione. Con tutto sempre a disposizione. Sono quelli ricordano solo l'euro ed ignorano la Lira. Quelli che non si ricordano le difficoltò di viaggiare con valute diverse ed i controlli alle dogane tra i paesi europei. Alla generazione Z appartengono quelli che oggi hanno, suppergiù, tra i 25 ed 40 anni.

Dal 1996 abbiamo la generazione Z, gli Z-ers. Sono quelli sempre connessi. Nati con computer, smartphones e la rete internet sempre accessibile. Che comunicano sempre, costantemente, soprattutto attraverso le tecnologie. Sono quelli che preferiscono vivere online piuttosto che nella realtà. Sono la generazione delle reti.

Ci sono indubbiamente punti in comune e molte differenze tra le varie generazioni, e quelle che spiccano sono quasi sempre queste ultime. Soprattutto nel mondo del lavoro. In particolare per chi, da boomer o da genX, si trova ad accogliere un membro della generazione Z, potrebbero esserci delle difficoltà.

La generazione Z comprende i nativi digitali, entrati nel mondo del lavoro in una società fortemente concorrenziale, che guarda poco al merito e molto all'apparenza. Sul mondo del lavoro, al di là della pandemia e della attuale situazione di guerra e transazione green, abbiamo carenza di manodopera, una forte stratificazione tra classi sociali, bassi stipendi ma costi di vita proibitivi. Un Gen Z è quello che con l'arroganza del giovane mette sul piatto che per lui le tecnologie e la digitalizzazione non hanno segreti. Che lui in un attimo ha tutte le informazioni che vuole. Ma è lo stesso che non capisce che ancora, spesso, conta l'esperienza. Un briciolo di umiltà li aiuterebbe ad essere ancora migliori. Dovrebbero farsi furbi, imparare, copiare, fare esperienza, rubare dai più bravi.

Qualche tempo fa una persona molto esperta del mondo del lavoro, un boomer come me, mi ha detto questa frase: "Quando noi siamo entrati nel mondo del lavoro, volevamo scrivere un lungo romanzo. Oggi i giovani vogliono scrivere dei capitoli, delle piccole e brevi storie". I nuovi entrati sul mondo del lavoro vogliono raccogliere quante più esperienze diverse. Un tempo, non tanto per quelli della mia generazione, quanto per i nostri genitori, una tipica carriera si svolgeva all'interno della stessa azienda. Si scalavano le posizioni, si faceva carriere e si salutavano i colleghi di una vita con la festa del pensionamento. Oggi la mentalità è cambiata. I più talentuosi ed ambiziosi hanno le idee chiare. Affrontano i colloqui dicendo: "Voglio portare nella vostra azienda, fin dal primo giorno, tutte le mie esperienze. Voglio crescere, migliorare e voglio aiutare l'azienda ad essere migliore. Ma ad un certo punto me ne andrò. Già lo so. Troverò un'altra azienda, nuovi stimoli ed aprirò un nuovo capitolo professionale. Ma non dovete preoccuparvi, lascerò questo posto di lavoro migliore di come l'ho trovato, ed io me ne andrò meglio di come sono arrivato".

La pandemia Covid-19 ha cambiato le carte in tavola. La gente ha capito la possibilità di lavorare da remoto. Nel bene e nel male. Ma la pandemia ha soprattutto aperto gli occhi sull'importanza dei valori e sull'equilibrio tra lavoro e vita privata. Le nuove generazioni, parlo di millenial e Z-ers, chiedono di più ai loro datori di lavoro: vogliono trasparenza, inclusione, rispetto, empatia, sostenibilità e supporto per una crescita e uno sviluppo continui. Vogliono partecipare attivamente al cambiamento, che vedono necessario, e vogliono esserne i promotori. Non sempre le aziende, i dirigenti e gli amministratori delegati sono in grado di supportarli. Il cambiamento è sempre difficile.

L'approccio degli Z-ers è quello di una presunta superiorità e capacità di adattamento al cambiamento. E' innegabile come il mondo stia cambiando alla velocità della luce. Loro si sentono i più pronti e preparati. Ne hanno abbastanza - e talvolta lo dimostrano con insofferenza -  delle generazioni più anziane, che mettono sul campo la loro esperienza, un modo di lavorare "storico" e che sembrano sottovalutare le loro capacità e le loro nuove idee. In definitiva, i vecchi sembrano ostacolare il progresso. Nella pratica gli Z-ers sono quelli che sognano un mondo in costante cambiamento, si sentono freelancer, con lo zaino in spalla, pronti a cambiare posto di lavoro ed attività in poche ore. La realtà è che la nostra società ed il nostro mondo non è ancora pronto a questo. Sono troppo avanti.

Come possono  i dirigenti aziendali rapportarsi con questi Z-ers?

Posso cercare di stimolarli ed agevolarli, ad esempio:

  • comunicando con empatia, non con chiusura: gli Z-ers sono quelli della comunicazione. Bisogna cercare di integrarli in azienda, creando quel senso di comunità che cercano. Vogliono la connessione, tra colleghi e tra funzioni. Vogliono essere ascoltati, vogliono essere parte del progetto e vogliono dire la loro idea;
  • affidando loro incarichi stimolanti: non bisogna trattarli da ultimo arrivato. Perché, specie se il giovane è talentuoso, il rischio è quello che se ne vada dall'oggi al domani. E' necessario affidare loro incarichi importanti, creativi, stimolanti, che li faccia dare il meglio di se. L'approccio del design thinking è quello perfetto, creando dei team di lavoro trasversali, unendo competenze ed esperienze diverse. Con il design thinking è possibile far convivere e lavorare il giovane e l'anziano. Con il giusto approccio, potranno farlo migliorandosi a vicenda;
  • accettando e favorendo la digitalizzazione, l'automazione e l'intelligenza artificiale in azienda: i giovani sono ormai legati a doppio filo ai computer ed alle reti. L'adozione di applicazioni di intelligenza artificiale può contare sul loro approccio ed aiutarli a realizzare i progetti più innovativi. Sono una grande occasione. In ogni azienda esistono azioni e compiti ripetitivi, magari di inserimento dati o gesti sempre uguali. Si può coinvolgerli nell'ideare nuovi sistemi basati sull'automazione, che aiutino, velocizzino e facilitino i compiti. Oppure potrebbero essere coinvolti nell'estrarre informazioni dai dati, per creare nuove soluzioni e aiuto alle decisioni aziendali;
  • adottare una nuova cultura orientata all'innovazione: sto parlando dell'approccio da utilizzare nelle riunioni e nelle decisioni chiave del team. Si può riorganizzare il lavoro in team, affiancando giovani e vecchi, avvicinando competenze diverse. Gli Z-ers  hanno bisogno di sentirsi considerati, di poter dire la loro nelle attività strategiche e nuove scelte del loro team. Anche in questo caso, gli strumenti dell'innovazione sono perfetti.

In conclusione, si, in effetto l'avvento in azienda di questi Z-ers è una grossa rompitura di scatole. Ma, come sempre, le cose che non si possono cambiare, bisogna essere in grado di accettarle e dobbiamo farcene una ragione, per andare avanti, dovremo cercare noi di adattarci. Ci vuole un cambio culturale non indifferente, soprattutto per accettare che gli Z-ers possano essere una risorsa importante, utile ad accompagnare le aziende in questa grande transizione verso la digitalizzazione e l'automazione spinta. E' inevitabile. La strada è segnata e nulla si più fare, se non provare ad accompagnare il cambiamento. Per noi boomers, occorre sforzarsi di  prendere spunto dai più giovani, accettando di disimparare tanto quanto si sta imparando, aprendosi al cambiamento e provando ad incentivarlo. Solo in questo modo ci si troverà un domani dalla parte giusta della storia. E soprattutto, guai a chi osa dire, davanti ad una nuova proposta: "ma qui si è sempre fatto così". Quello gli Z-ers proprio non lo sopportano.